giovedì 6 dicembre 2012

L'era del cidipanettone d'autore

Fino a due anni fa non potevamo fare a meno di vedere o schifare chi andava a vedere il cinepanettone. Con il prossimo film, de Laurentiis ha definito una nuova strada anche perché la realtà ha superato gli sceneggiatori. Addio (arrivederci) agli sputi negli occhi e alle lingue sovraesposte e vai con un’esplosione di finta protoborghesia dell’Italia in crisi.
Per fortuna il cinepanettone è stato rapidamente sostituito da un altro prodotto ad hoc: il cidipanettone d’autore. Nello spazio di pochissimo tempo sono usciti i nuovi dischi di Battiato (Apriti sesamo), Guccini  (L'ultima Thule) e De Gregori (Sulla strada) e non può essere un caso astrale.
In Italia, non è una novità, comprano i dischi solo chi è fanatico di suo o chi vuole appioppare il regalo da fanatico a qualcun’altro. E quale migliore periodo del Natale?
Quello che ho scritto non è tutta sta notizia in sé, però... La cosa particolare è che tre guru della nostra canzone di autore hanno realizzato un album per le feste. E se è ovvio che tutto è in mano al commerciale, perchè dirci in tv e stampa che il nuovo album è figlio di un’ispirazione che ha avuto come traguardo artistico questo particolare momento storico (dell’anno)? Non sarebbe meglio metterci un bel fiocco rosso sul pack e dire che a Natale è meglio ascoltare me che l’altro?

sabato 5 maggio 2012

Il Cile ha fregato Le luci


Qualche settimana fa si scriveva della ormai attesa trasformazione de Le luci della centrale elettrica. Si diceva tra noi che il trascinante e anarcoide brano disteso nei primi due album doveva diventare qualcos’altro per non restare nella mente come lunga nenia per addolorati. L’ipotesi era riportare rabbia e carezze di parole veramente popolari nella sfera dei sentimenti personalistici (termine forse negativo ma è un percorso possibile), scrivere canzoni dell’amore d’oggi, mai tanto buio e però sferzato da venti di piccole meraviglie.
Prima che lo facesse Vasco, la palla l’ha presa al volo il Cile, ragazzo che ha ascoltato la musica di questi ultimi cinque anni e ne ha impastato una canzoncina (Cemento armato) addirittura da radio (e quell’addirittura non vale per l’armonia del pezzo, orecchiabile all’accesso, ma per l’effetto meteorite che provoca).
Ovviamente Le luci non avrebbero mai scritto “Cemento armato” ma il Cile con il pezzo ne ha trafugato un tassello di futuro possibile e ha messo in campo un modello da cui è necessario adesso distanziarsi.
Ora bisogna scrivere musica più densa e parole più forti di Cemento armato per non cadere nello stereotipo.

domenica 22 aprile 2012

Giancarlo Bigazzi feat. Aldo Nove

Fare la biografia di un genio, di una persona il cui meraviglioso universo non è mai manifesto, mi è sempre sembrata una boiata, un discorso comunque monco. Nella psiche dei comuni si costruiscono volute e piani incantati, realizzabili e raccontabili in parte, ma raccontare quello che passa per la mente e nella vita dei geni è francamente un esercizio misero. Nessuna soluzione? Aldo Nove forse l’ha trovata, scrivendo la biografia di Giancarlo Bigazzi, “Il geniaccio della canzone italiana” (Bompiani), miscelando in un discorso senza cesure storie di vita, aneddoti, descrizioni di atteggiamenti, pensieri, riflessioni storiche, considerazioni sociali, riflessioni personali e citazioni, il tutto per parlare di un uomo che senza arte né parte che ha inventato un’arte e ha assunto una parte importante nelle vite di tutti.   I rimbalzi dalla poesia al saggio sociologico, dal romanzo alla critica storica entrano a pieno titolo negli stili della scrittura contemporanea di cui Aldo Nove è maestro e alunno (questa è la grande novità della grande scrittura contemporanea: continuare a proporre stili e mondi nuovi in libri per forza di cosa diversi ma coerenti). E l’aver costruito con questo stile un racconto della vita di Giancarlo Bigazzi amplifica il modello e lo rende perfetto. Quello che era necessario, e che si ritrova nel libro di Nove, è il concetto di flusso. Raccontare di qualcuno che ha pensato e creato la canzone da mare anni ’60, la controffensiva demenziale e controculturale degli anni ’70 e la new wave melodica degli ’80 mette di fronte ad un bivio: sezionare tutto e approfondire per temi oppure sviluppare un unico flusso indistinto e cangiante? Nove ha scelto il secondo modello, azzeccando.

domenica 25 marzo 2012

Intervista a Diego Mancino - Aspettando È necessario

Diego Mancino è un’artista senza limiti. Intervistarlo è stato appassionante. Il 3 aprile uscirà il suo nuovo album. Il titolo è “È necessario”. Leggete l’intervista per capirne il senso.

Diego, inizierei con una domanda secca. Ad oggi crei più facilmente per te o per gli altri interpreti?
Non fa nessuna differenza per me. Scrivo per passione e soprattutto mi diverte molto costruire canzoni. Lo scrivere per me è un momento di gioco e liberazione. Scrivo anche cantando e faccio fluire tutto me stesso all’interno del brano. Si cantano quelle rime scritte come se fossero la tua stessa bandiera, la tua verità incrollabile. L’unica cosa sicura è che le canzoni che scrivo sono quelle che mi fanno dannare per giorni interi, alle quali poi mi affeziono.

Hai una particolarità autoriale molto specifica. Quello che crei per un interprete è sempre molto diverso da quello che realizzi per te o per un altro. Come spieghi questa tua capacità adattiva e camaleontica?
Non credo sia vero. Le mie canzoni per altri sono tipicamente mie. Bisogna poi tenere presente che io scrivo le canzoni ma poi ci sono i produttori e loro usano la sega elettrica.

Ho un’idea su molte delle tue canzoni. Più che ispirarti al cantautorato o alla poesia, ti ispiri all’arte. Un esempio che mi viene in mente è la ricerca dell’universale amoroso che c’è dietro “Tutte le distanze”, riscontrabile ad esempio in alcuni quadri di Matisse (infatti ad un certo punto scrivi, riecheggiando “La Danza”: misurerò l'abbraccio / che tutti ci contiene / e contiene l'universo). Può essere giusta questa idea?
Sono felice di queste considerazioni. L’arte mi ispira e anche la vita degli artisti. Opere in movimento, ecco quello che hanno creato molti artisti. Cercando linguaggi e visioni, a volte divento totalmente servo di questo impulso, cercando di essere un’antenna, ricevo segnali e li ritrasmetto.
Mi piace la poesia, è per me una lingua che capisco e mi fa sentire meno solo. Invece i quadri mi isolano, mi fanno sentire disarmato, per questo li amo e li temo. Per fortuna da tutta l’arte traiamo nutrimento. Nel mio ultimo disco ad esempio sono stati i quadri di Daniel Egneus ad aprire milioni di finestre nel mio quaderno.

Una tua scelta stilistica precisa si riferisce alla descrizione dei grandi moti dell’animo attraverso flash molto tangibili, direi”fisici”. Un esempio potrebbero essere le parole: “L’amore è un sasso”. Quello che cerchi nelle tue canzoni e far vedere il sentimento?
Rendere fisiche le cose immateriali è un mio modo di scrivere, dare corpo ai sentimenti è un modo per ricreare un mondo immaginario. Questo è quello che fanno le canzoni, dichiarando un’identità, una nazione immaginaria, ci emancipano dall’oltraggio di un futuro migliore, per rivendicare il dominio sull’oggi soltanto. Siccome le parole possono diventare palazzi immateriali, li puoi abitare ma non puoi bombardarli. Allora vale la pena di provare a costruire città immaginarie.

Una canzone a cui bisognerebbe legare l’aggettivo/concetto di postmoderno è “Strana l’estate”, in cui metti insieme immagini tradizionali della canzone d’amore estiva, citazioni, slang e nuovi modelli, collegando tutto con un filo rosso che riesce a dare un sensazione di novità. Che ne pensi di questa canzone?
La ricordo con molta tenerezza perché rievoca ricordi che adesso mi sembrano lontanissimi. Io sono molto cambiato. Postmoderno è anche il mio ultimo disco, perché sono partito proprio da canzoni come Strana l’estate.

Per Renga, in occasione di Sanremo 2012, hai co-partecipato alla creazione di un’aria contemporanea, piena di pathos e altezze. Cosa ne pensi di questa canzone?
È una canzone bellissima, che mi ha dato la possibilità di lavorare con nuovi musicisti e compositori, come Dario Faini, col quale per Francesco abbiamo scritto anche “Senza sorridere” e altre canzoni. Lo stesso Francesco Renga è un ottimo cantante col quale non avevo mai lavorato. Ti confesso che quando sono a casa ascolto la versione cantata da me. Un giorno, senza dirglielo, gli faccio un agguato. Salgo sul palco e la canto.

Per finire, nel tuo prossimo futuro cosa vedi? Un impegno più intenso sulla tua parabola artistica o la messa a frutto della tua capacità di modellare perfettamente per gli altri?
Non vedo separazione. Io non sono diverso quando scrivo per gli altri o per me, è tutto parte della mia stessa urgenza espressiva, è il mio posto nel mondo, non ne conosco altri. La mia curiosità mi spinge a confrontarmi molto volentieri con chi è diverso da me. Io voglio imparare da chi più bravo e siccome mi sembra che tutti lo siano, ho una curiosità infinita e infinite strade da percorrere. Ad ogni modo, se diventerà noioso e patetico, ho dato mandato ad una persona di sopprimermi.

giovedì 15 marzo 2012

Il corteo di Celentano

Ma in questa canzone di Celentano, il coro non vi sembra un corteo degli anni '70 che urla slogan? Bella idea.

domenica 11 marzo 2012

Arisa - Come si costruisce una campionessa

Arisa è un progetto nuovo dal sapore antico, iniziato e portato avanti su due elementi che in Italia difficilmente hanno corso paralleli: qualità e immagine. Chi in Italia ha messo insieme questi due mondi, distanti spesso in un progetto d’artista, sono tutti campioni affermati e “storici”: ed è verso di loro che corre Arisa.
Della proposta sanremese, “La Notte”, abbiamo già scritto in altri post e ribadiamo: canzone profonda che voleva dimostrare al “pubblico pubblico” del cambio di rotta: da personaggio con impronta jazz a interprete totale da ascoltare senza canticchiare.
Ma è con l’album “Amami” che si comprende bene il progetto di campionessa che è dietro Arisa.
Canzoni come “Amami” (canzone che evidenzia grandi capacità di scrittura da parte della stessa Arisa), “Il tempo che verrà”, “Ci sei e se non ci sei”, “Si vola” sono tutti pezzi dal grande impatto armonico con parole che vengono dall’Arisa che conosciamo ma si aprono ad una prospettiva nuova.
L’Arisa (Giuseppe Anstasi) delle sue canzoni più famose aveva un vezzo stilistico che emergeva forte: inserire nei punti di svolta delle canzoni termini astratti che difficilmente si ritrovano in altri pezzi soprattutto di giovani artisti. Un esempio sono le parole “Sincerità”, “Elemento imprescindibile”, “Orgoglio”, “Tristezza”, “Astuzia” disseminate in canzoni come Sincerità" e “Pace” che fanno da elemento catalizzatore di senso dell’intero sviluppo del pezzo.
Nei testi dell’album “Amami”, Arisa parte da questo suo elemento differenziante ma arricchisce il vocabolario di termini molto più semplici e quotidiani, che sono poi i veri e propri perni della storia della canzone italiana: su tutti la parola “cuore” che rima in “ore” ad esempio con “rumore”, oppure gli “occhi”, “le notti”, “i baci”.
E questa piccola sterzata sui testi, appaiata a quella d’immagine, ha posto le basi prima di tutto per un grande successo dell’album, da cui possono venire fuori almeno quattro singoli da ascoltare per mesi interi anche in radio, e successivamente ha mostrato la strada che l’artista Arisa percorrerà nei prossimi anni verso la completa consacrazione di interprete assoluta nel panorama italiano.
P.S. Lo zampino del grande Mauro Pagani si vede.

giovedì 8 marzo 2012

Intervista a Roberto Casalino

Roberto Casalino è l’autore del momento. L’amore e le sue tante espressioni in parole che riescono ad essere sempre nuove per interpreti molto diverse.

Roberto in un 2011 da favola hai scritto, tra le altre, “Diamante lei e luce lui”, “Ti capita mai” e “Distratto”. L’anno della tua esplosione totale come autore di punta della musica leggera italiana?
Il 2011 è stato un anno importante e ricco di soddisfazioni, che ha portato nuove canzoni e nuove ispirazioni. Non parlerei di “esplosione totale”, quanto semplicemente di un tassello in più nel mio percorso artistico e umano.

Nei tuoi testi la descrizione dell’amore non è mai la stessa. Da dove parte questa capacità di parlare dell’amore nelle sue tante dimensioni?
Attingo alle mie esperienze personali, che osservo ogni volta da una prospettiva e angolazione diversa, per coglierne sempre un particolare nuovo. È come se, a rotazione e a seconda del mio stato d'animo, mettessi in ombra alcune scene e in luce altre. Ogni canzone porta a galla una parte di me fino ad allora sconosciuta: spesso un testo o una melodia che scrivo mi tornano indietro con una forza travolgente, quasi a sbattermi in faccia certe verità fino ad allora nascoste o semplicemente ignorate per soffrire meno o gioire meno.

Oggi l’artista viene fuori da un percorso molto diverso dal tuo. Noti differenze nella capacità delle tante artiste con cui collabori per quanto riguarda la gestione del loro ruolo?
Ognuno ha un proprio percorso: il mio nasce nella mia camera, per passare poi alla sala prove con la band e poi ai locali dove ho suonato dall'età di 16 anni, proponendo prima cover e poi solo brani inediti. I tempi sono cambiati e i ragazzi di oggi si adeguano alle opportunità che hanno in questo preciso momento storico, dove il talent show è il mezzo più veloce per giocarsi le proprie carte. Una cosa, però, è rimasta immutata: puoi anche avere la tua grande possibilità, ma va avanti chi dimostra di avere davvero talento. Il colpo di fortuna è necessario e ha la sua importanza, ma una volta che la fortuna passa bisogna essere in grado di rimanere a galla.

La canzone per quella particolare artista nasce da un tuo desiderio o da una programmatica analisi del come far evolvere una carriera?
Difficilmente scrivo su commissione: magari ti viene chiesto un brano per un interprete piuttosto che per un altro, però personalmente lascio fluire le mie emozioni senza imposizioni. Scrivo senza chiedermi se quella canzone alla fine la terrò per me, per il mio progetto cantautorale o se decido di metterla a disposizione di altri.

Per me il tuo testo più nuovo è “Diamante lei e luce lui” per Annalisa Scarrone. La metafora che regge la canzone esplode in un ritornello di piena musicalità, traboccante di una visione dell’amore che sulle parole tronche naviga una meraviglia fino ad arrivare al porto sicuro e quasi sussurrato del Per Sempre, per sempre. Cosa pensi di questa canzone e qual è per te la canzone che più ti rappresenta in questa fase?
“Diamante lei e luce lui” è nata di getto, scritta per la mia migliore amica e per il suo compleanno. Io chiamo lei “il mio diamante” e lei mi definisce “la sua luce”: ho dato voce a un profondo sentimento autentico e dalle diverse sfumature, date dagli anni che ci legano...e sono tanti. Non ho una canzone che mi rappresenta maggiormente in questo periodo. Direi che ogni canzone scritta ha in sé qualcosa che mi accompagna sempre, nel corso degli anni e delle esperienze che faccio. Dopotutto una canzone è un fermo immagine di un preciso istante, che non viene dimenticato e si aggiunge al tuo percorso personale. Oggi sono il risultato di tutte queste canzoni... e non solo...: domani sarò altro da oggi.



Da un “Per sempre”, all’altro. Per Nina Zilli hai messo mano ad una canzone che ho definito mineggiante. Sei d’accordo?
Nel mio background musicale c'è tanto del cantautorato italiano ed è naturale lasciarsi influenzare da quanto fa parte del proprio DNA. La definizione “mineggiante” di “Per sempre” è veritiera, soprattutto perché ricorda le atmosfere interpretate da una delle più belle voci che abbiamo nel nostro Paese. Ma al di là delle definizioni, “Per sempre” ha una sua identità, un suo messaggio preciso, una sua motivazione di esistere. Ha lo scopo semplice (ma mai ovvio e dato per scontato) di arrivare al cuore della gente per dire loro che forse nulla è per sempre, ma che possiamo permetterci il lusso di illuderci e di credere che lo sia.

Anche per questa canzone un passaggio da sottolineare: alla fine del ritornello, scrivi una frase secondo me eccezionale: “Perché l’orgoglio in amore è un limite/Che sazia solo per un istante e poi/Torna la fame”. Saper muovere parole così vere in una canzone che vuole far entrare l’interprete in un canone “classico” è il tocco che la rende speciale. Che ne pensi?
Non mi chiedo mai quale sia la direzione delle mie parole: le uso, le modello a mio piacimento e cerco di trovare sempre il giusto accostamento che renda l'idea dell'immagine che in quel momento sto osservando dentro di me. La frase che hai citato è il fulcro del brano e ricordo ancora che è venuta da sé, senza pensarci. Quando scrivo lascio sempre in modalità “rec” il supporto su cui appunto le mie idee, perché credo fortemente in quello che viene definito “stream of consciousness” (il flusso della coscienza): quando non ci sono argini, le parole ti assalgono.

Ultima domanda: il tuo futuro da autore avrà un allargamento di tematiche?
È come se mi chiedessi: sai cosa accadrà domani nella tua vita? Io racconto quello che sono, senza trucchi e inganni, per cui le canzoni di domani affronteranno le tematiche di ciò che sarò domani. Ma una cosa è certa: l'Amore è il fulcro della mia vita, per cui non credo ci saranno tematiche diverse, semmai diverse sfaccettature di questo bel sentimento che tanto mi fa star bene quanto stare male.

venerdì 2 marzo 2012

Tutti i Dalla della nostra vita

Dalla è stato capace di una dissociazione spazio-temporale mai vista nel mondo della canzone italiana: è stato sempre lo stesso, cambiando in continuazione. Dalla era Dalla, c’era poco da dire. Era icona e voce, ma stranamente melodia. Eppure…
Eppure Lucio Dalla ha scritto canzoni così diverse tra loro che questa coerenza non si riesce a comprendere.
Deve esserci un filo rosso.
Partiamo dall’inizio: “Bum Paf! L'amore viene e va/ Paff Bum! Un po' di dispiacere/ Paff Bum! E dopo passerà”, un dadaista neomelodico, tutto qui? Altro passo avanti: “Itaca, Itaca, Itaca/ ed a casa io voglio tornare/ dal mare, dal mare, dal mare”, Kavafis raccontato agli assenti, oppure “Ci nascondiamo di notte/
Per paura degli automobilisti/ Degli inotipisti/ Siamo i gatti neri/ Siamo i pessimisti/ Siamo i cattivi pensieri” padre e figlio delle tante parole di cui vogliamo trovare un motivo, senza tralasciare “La potenza della lirica dove ogni dramma é un falso/ Che con un po' di trucco e con la mimica puoi diventare un altro” biografia in note, altro che le canzoni a commiato.
Questo è solo un po’ di quello che ci ha scritto e fatto ascoltare. C’è un legame? Non so, io dico il mio: Dalla cantava una passione assoluta per le cose viventi. Anzi no, ha cantato anche le meraviglie di un motore, diciamo per le cose che aumentavano la vita, come se vedesse dall’alto quello che fa crescere la serenità umana e lo volesse esaltasse. Come faceva, questo il grande mistero che si porta appresso.

domenica 26 febbraio 2012

Sanremo 2012 in base al Coefficiente di Coerenza

Alcuni anni fa ho scritto insieme a Giosuè Luca Cavallaro un libro (Le forme della canzone – Zona Editrice) in cui cercavamo di analizzare come si costruisce una canzone ed un interprete modellandoli sugli ascoltatori potenziali, la progettualità del prodotto-artista e la vision della canzone-testo. Lo scritto aveva in nuce alcune idee che è giusto ribadire e approfondire, a partire da un concetto che sintetizza il succo del libro: il coefficiente di coerenza.
Più che parlarne nei particolari, è giusto applicare questo coefficiente ad alcune proposte di Sanremo 2012, per capire le strade intraprese ma soprattutto le ricadute effettive di quello che abbiamo ascoltato.

Emma ha vinto per quello che è stata, sfumando lei stessa nel corso delle serate sanremesi l’asset principale del progetto di canzone e ritornando al modello per cui era conosciuta. Con “Non è l’inferno” non si apre una nuova pagina del prodotto Emma, capace di calpestare e farsi sentire su temi sociali profondi, ma restiamo con l’Emma grinta e cuore, sudore e rivincite. Il buco è sicuramente dovuto ad un testo troppo lineare e con metafore poco impattanti sulla realtà precaria che si voleva raccontare. Non puoi scrivere una canzone che parla di un problema sociale pensando di scrivere una canzone d’amore. Coefficiente di coerenza: 5

Arisa è invece il prodotto artistico più incredibile degli ultimi 10 anni. Ancora non siamo riusciti a comprenderlo, soltanto una retrospettiva tra qualche anno di carriera riuscirà a completare l’analisi. Ha abbandonato la leggerezza jazz e il fumettismo, caricando di responsabilità la canzone di Sanremo, su cui ha puntato come riconversione artistica (mettendo nel mirino soprattutto un nuovo target). La sfida è pienamente riuscita e oggi Arisa si apre al panorama nazionale come riferimento primo per capacità vocali e “portfolio” delle tematiche trattabili. Il punto adesso è scriverle canzoni come “La Notte”, che non siano “La Notte”. Coefficiente di coerenza: 9,5

Nina Zilli: qui invece non siamo di fronte ad una riconversione ma ad un upgrade di prodotto. Ascoltare Nina Zilli dopo “Per Sempre” vuol dire incamminarsi con lei su una strada che ha come meta l’eccellenza tecnica legata alla piena padronanza degli strumenti di scena, farsi trascinare su temi delicati e profondi insieme, accettare una sfida che fa paura: essere la nuova Mina.
Nina Zilli con la canzone di Sanremo ha spalancato la porta che aveva aperto. La grande sfida qui è costruire con pezzi sempre più “assoluti” l’Artista italiana degli anni ’10. Coefficiente di coerenza: 9

Noemi ha proposto la canzone più “sharabile” di Sanremo. A chi non piace lo strascicante ritornello che la cantante romana esalta con una voce introvabile in Italia. E poi c’è un momento in cui la canzone si sospende (“Questo è o non è….”) e Noemi canta la parola “amore” riempiendo di calore tutti coloro che l’ascoltano.
Con “Sono solo parole” Noemi non sposta di tanto il suo percorso e segue la strada che la morbidezza appuntita della sua voce permette. Credo che puntare ad una nuova Noemi in questa fase era sbagliato ed è stato giusto darle una canzone pienamente sua. Ha ancora almeno due anni di “autonomia”, evitando la monotonia. Tra due anni Noemi tornerà sul palco di Sanremo e canterà qualcosa di nuovo. Coefficiente di coerenza: 8

Pierdavide Carone è l’esempio perfetto di come lavorare in base ad un evento capace di lanciare un brand. Un po’ come durante il Superbowl, in cui ci sono stati casi di riposizionamento di prodotto grazie ad un solo spot. Pierdavide Carone aveva una sola pallottola d’argento da sparare nel cuore di un target molto scivoloso, che ama la canzone d’autore ma boicotta i talent show, che vuole ascoltare temi poetici ma distrugge le metafore troppo argute, che si esalta con gli elementi profondi di una canzone ma non vuole un’intelligibilità troppo complicata.
Questa era forse la sfida di prodotto più difficile presentata a Sanremo, secondo me vinta per tre ordini di motivi: Carone ha portato con sé la scia di popolarità mediatica ridefinendola e mutandola con il gusto di un pubblico che è a sua volta mutato dopo la sua prima fase artistica. In secondo luogo perché la canzone, come detto in altri post, è salita con modestia sulla barca dei cantautori del passato attraverso echi, citazioni e atmosfere molto memorabili. In terzo luogo la presenza di Dalla ha protetto il progetto, ma soprattutto lo ha subito palesato agli occhi e alle orecchie degli spettatori, chiarendo fin da subito gli obiettivi finali. Il colpo è riuscito, ma per Carone adesso viene il bello: diventare un Cantautore o il Cantante dei pezzi veraci? Coefficiente di coerenza: 10

mercoledì 15 febbraio 2012

Dopo il primo ascolto di Sanremo 2012 - Vince Noemi?

Impressioni di febbraio al primo ed unico ascolto (la memoria falla) delle canzoni di Sanremo 2012 dopo la prima puntata. Le canzoni che mi sono arrivate di più (oggi in bus biascicavo “Vieeeni viaa con me…) sono quelle di Carone e Nina Zilli, entrambe costruite su una struttura melodica molto semplice. Carone, come dicevo ieri, si apre al cantautorato più alto mantenendo però la freschezza già dimostrata.
Nina Zilli scrive con Casalino e canta una canzone piana che mette poco in mostra lo swing soul della voce ma che lei riesce a performare alla grande grazie ad una padronanza delle telecamere da vera showgirl.
Emma e Dolcenera sembrano cantare due canzoni troppo simili, per cui serve il nuovo ascolto per carpire la distanza.
Dai Marlene Kuntz mi aspettavo un colpo più alla Afterhours de “Il paese è reale”, ma una musica un po’ scialba non fa da contraltare ad un testo pieno di ricchezze.
Arisa (o chi per lei) ha troppo annunciato il cambio di temi e atmosfere per impattare come doveva, anche se la canzone è perfetta per la sua voce e un suo mood molto difficile da portare su temi meno funny.
Forse la canzone migliore per vestito sonoro e interpretazione è quella di Noemi. Ritornello che chiama in causa Mina e i Negramaro su una musica che decora la voce graffiata di Noemi.

martedì 14 febbraio 2012

Sanremo 2012 - I testi delle canzoni valutati al buio

Per Sanremo 2012 ho fatto un esperimento su me stesso. Ho dato una scorsa veloce ai testi senza sapere di chi era la canzone. Ho scoperto solo qual è la canzone di Pierdavide Carone (ricordavo il titolo). Per questo motivo mi lancio in un commento al buio, come se si stesse pesando un chilo di merluzzo a braccia.
Di “Nanì, Nanì, Nanì” posso dire poco perché il mio gioco è scoperto. È un tributo pericoloso (evidenti De André e Conte, ma c’è anche dell’altro, oltre a Dalla che è lì), ma credo che Carone con questa canzone spalanchi le porte del cantautorato e guardi l’orizzonte ben sapendo con chi sta sulla barca. Può decretare il grande successo. Dipende dal motivetto.
La canzone che dice: “E quando arriva la notte e resto sola con me /La testa parte e va in giro in cerca dei suoi perché/Né vincitori né vinti si esce sconfitti a metà /La vita può allontanarci l’amore continuerà” è una canzone potente, matura, festival delle parole tronche, da cantare con energia altrimenti diventa filastrocca. È una canzone affacciata sulle atmosfere miniane.
La canzone che ha i versi “La chiamano realtà/ Questa confusione/ Di dubbie opportunità,/ Questa specie di libertà” guarda al presente con un po’ di confusione. Richiama libri come “Vita precaria e amore eterno” e la immaginiamo molto ritmata. Sulla stessa falsariga anche quella che fa “Ho… dato la vita e il sangue per il mio / paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese,” con parole ancora più semplici e dirette (insomma, sarà il Festival del precariato).
In una canzone ho beccato un verso alla Zanzotto: “La strada dei passi passati da qui”.
In questa invece Vasco Rossi impera: “E quello che mi resta è di trovare un senso / Ma tu, sembri ridere di me,/ Sembri ridere di me…/ E tu lo chiami Dio/ Io non dò mai nomi/ A cose più grandi di me”.
Quella che invece fa “La felicità non è impossibile / La stupidità la rende facile, / Come un’ebbrezza effimera che può imbrogliare,/ Fino a non capire che può fare male” è un vero scritto di etica che apre una discussione. La tesi è: la felicità è nelle sicurezze, nella volontà di adattarsi, mentre l’infelicità è nella ricerca continua, nelle sfide. Una rivoluzione personale che si focalizza sul vivere senza grandi obiettivi.
Aspettiamo stasera e l'ascolto.

venerdì 3 febbraio 2012

La banalità del riot amoroso firmato Negramaro

Purtroppo uno legge un titolo, si aspetta ed aspetta e viene fregato sul più bello. Non conoscevo “Londra Brucia” e i Negramaro l’hanno sparata in tutte le radio.
Il titolo è una frase che schiuma di nobiltà dai Clash ad Anyone can play guitar dei Radiohead. E tutti noi, orecchio teso a capire se i riot dello scorso anno avevano fatto partorire un testo sociale ai Negramaro.
E invece mi trovo: “Hi/londra brucia e tu che dici/ se ti fermo tu che dici/ e non ci sei già più”.
I Negramaro sono straordinari quando usano il glossario quotidiano dei trentenni. Hanno esaltato i termini basic con sviluppi sintattici perfetti per la loro musica succosamente rock.
Ma nonostante questo non puoi permetterti di aprire un universo di senso (la società che lotta per avere nuove opportunità) per poi banalizzarlo in una storiella da scoglionato innamorato.
Che poi una sequenza come: “Vorrei odiarti un po’/senza senza nemmeno amarti/ e vorrei amarti poi/ senza nemmeno conoscerti” fa comunque ridere i polli.

mercoledì 1 febbraio 2012

Il futuro de Le Luci della Centrale elettrica

Ed ora? A chiederselo il pubblico, ma credo anche l’entourage de “Le Luci della centrale elettrica”.
Vasco Brondi
ha messo un chiodo nel cantautorato italiano dei nostri giorni e lo ha conficcato nella testa di chi crede che basta parlare delle microstorie per fare letteratura musicale (appunto).
Le luci della centrale elettrica hanno raccontato gli ultimi anni zero come nessun altro, schizzando parabole di note asciutte dalle periferie ai palazzi del potere.
Mi fermo, questo è solo un approccio al tema “Le luci e Vasco Brondi” perché avremmo bisogno di uno spazio non leggibile per chi scrolla e allora sarà meglio spezzettare l’analisi.
Ritorno invece alla domanda di cui sopra. Ed ora Le luci come continueranno il loro percorso? Il lungo ditirambo sul beat che scivola lungo i due dischi di nascita ormai non è più replicabile, non può avere lo stesso appeal, non può più catturare l’orecchio e la testa. Cosa devono diventare?
Una mia idea, confermata dal brano dell’EP allegato ad XL de La Repubblica, riguarda un doppio ambito: ammorbidimento del ritmo su volute armoniche musicalmente più complesse e argomenti più mirati, che non ci sparano in faccia la deformante realtà sociale che stiamo vivendo ma focus più definiti, che esplorano soprattutto le relazioni personali con gli altri e noi stessi.

giovedì 26 gennaio 2012

Il target di Vasco Rossi

Dalle scuole medie, investito dai miei compagni di scuola che adoravano e contaminavano anche me, mi sono sempre chiesto chi è il pubblico, sarebbe meglio dire target (non offendo, sono onesto, tutti hanno un’audience da rispettare) di Vasco Rossi.
Dopo anni e anni di scenari di mercato è stato lo stesso Vasco a dirmelo, come fa lui: “Noi siamo i soliti, siam quelli lì”.
La risposta è in questo verso, asciutto e denso come sa fare il Blasco.
Quelli lì sono “difficili” secondo i canoni della normalità più assoluta, così normali da essere incomprensibili nella società dell’esposizione iperrealistica. I soliti hanno “illusioni e grandi passioni” che non portano conseguenze o fanno immaginare mondi, sono slanci personalistici e vuoti, secondo la migliore interpretazione del termine, perché slanci che non vogliono convincere nessuno.
Essere “liberi”, il grande tema rossiano. Ma liberi da cosa? (lo dice anche lui). I soliti non sono liberi da particolari legacci sociali che sono saltati da anni, forse sono liberi dai condizionamenti, ma neanche questo poi è tanto vero. Io mi sono fatto l’idea che la libertà per Vasco è condurre una normale vita in pace con la propria coscienza. Se questo vuole dire provare tutti i limiti consentiti oppure sposarsi e fare figli beandosi della vita da impiegato non fa differenza.
Il “volo” è un frullato di sensazioni che possono arrivarci da qualsiasi parte.
I soliti, sono così soliti da confondersi, mischiarsi, essere invisibili (Nessuno li nota: “Noi siamo quelli che, vedete qui”, è meglio indicarli altrimenti ci sfuggono). Non canta la straordinarietà, non l’ha mai fatto. Vasco Rossi canta la volontà di sognare, volare e sbagliare, che già nei termini troviamo nel diario di tutti quei miei amici delle scuole medie, che oggi sono diversi da allora e la gente chiamerebbe insoliti.
Vasco Rossi lo odiano.

lunedì 23 gennaio 2012

Essere Giancarlo Bigazzi

C’ è una pubblicità che gira in questi giorni che dice più o meno: “Per essere un vero genio devi eccellere in cose totalmente diverse tra loro”. La prima volta che l’ho vista, l’ho associata ad una sola persona: Giancarlo Bigazzi.
Bigazzi ha preso un talento, mettiamo anche che all’inizio era un piccolo talento con alcune interessanti illuminazioni, ma la sua genialità è stata nell’averlo fomentato, moltiplicato, fatto ruzzolare lungo il pendio della vita italiana e delle emozioni personali creando una valanga inarrestabile.
Bigazzi ha scritto frasi come “Luglio col bene che ti voglio” e “E ti perdi dentro a un cinema/A sognare di andar via/Con il primo che ti capita e ti dice una bugia”, ha raccontato gli anni ’60 con l’addio ai paesi per la città regina e puttana, gli anni ’70 rosa, con la loro voglia di scoprire un corpo nudo, gli anni ’80 densi, pronti per i tormentoni da stress, per arrivare ai giorni d’oggi dove ha preteso un presidio slow nelle musiche per cinema.
In tutto questo Bigazzi ha pensato e fatto partorire gli Squallor come appendice delle supercazzole giovanili e creato cantanti, affibbiando ad ognuno di loro un’anima da trasmettere sempre diversa.
Giancarlo Bigazzi è morto qualche giorno fa e non ha eredi. Forse non potrà averne o forse c’è qualcuno che conosce così bene se stesso da poter essere tante cose diverse senza perdere le bussole e dimenticare mai le atmosfere sociali in cui vive.
Bigazzi c’è riuscito e non si capisce come.

martedì 17 gennaio 2012

I mostri sacri e il Celentano politico

I mostri sacri sbagliano. Lo dice la storia e lo dice anche il presente. Il tema è: il Celentano politico. Premettendo che il Celentano migliore è quello che descrive le trasformazioni italiote nei rapporti di coppia, in continua evoluzione e sempre intercettati dai suoi migliori autori di testi (a partire dall’innovativo Micky del Prete di “Impazzivo per te” e “Susanna”), che gli scrivevano addosso in base al suo percorso generazionale, risultando sempre d’avanguardia, il Celentano civile o politico migliore (almeno dal punto di vista di successo di pubblico, più che per impatto sociale) è stato il cantastorie alla Pasolini de “Il ragazzo della via Gluck”(da ricordare anche Luciano Beretta, creatore dei tanti Celentano che conosciamo, dal carezzatore in un pugno a Serafino) oppure quello tra il surreale e l’ironico (“Un albero ti trenta piani” ricorda alcuni spunti di Flaiano).
Dimentichi di queste premesse, Battiato e Sgalambro, su musica di Piovani, hanno cucito addosso a Celentano un vestito sformato, che lo rende inattuale e poco incisivo già prima della prima uscita in pubblico.
Il testo di “Facciamo finta che sia vero” vuole dare un colpo alla profondità di Gaber, rimanendo però all’asciutto (diciamo che l'intento si blocca al "Facciamo finta..."), e uno al Battiato di “Povera Patria”, che può essere canticchiata e rimane perché è fin troppo semplice da intonare in coro.
Con questa canzone Celentano non fa altro che ripetere quello che al bar sentiamo tutti i giorni (magari i signori del bar dicono sacrosante verità ma non mi serve ascoltare con attenzione una canzone, come ci ha detto Giletti domenica), e come i giocatori di scopa al Bar dello Sport piangere sul tempo passato, indicando un paradiso ormai lontano che ha stancato anche i vintagisti: gli anni ’60.
E per darci una scossa, nessuna parafrasi o frasi di circostanza, un bello “Svegliamoci”, gridato sottovoce perché tanto non è indirizzato a nessuno.

lunedì 16 gennaio 2012

L'uomo contemporaneo per Tiziano Ferro

Il primo post di questo nuovo blog lo dedico alla miglior frase contenuta nei testi delle canzoni uscite tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. La frase è: “La mia vita mi fa perdere il sonno sempre” di Tiziano Ferro. Preceduta dal classico semi-parlato di Tiziano Ferro, l’attacco del ritornello spalanca la melodia con una frase semplice ma forte, che spacca la canzone e resta in mente. La frase richiama il quotidiano, con parole semplici, al limite del colloquiale (d’altronde Ferro mette in questa canzone un botta e risposta degno del miglior Mogol: “Tu come stai? Bene, Io come sto? Boh”), senza scadere nel melenso.
La vita che toglie il sonno non è soltanto una dichiarazione di amore, anzi solo in ultima analisi è un grido d’empatia amorosa, ma è piuttosto la dichiarazione in parole semplici meglio associabile all’uomo contemporaneo, compresso da stimoli ed emozioni che riempiono l’esistenza alterando gli stati d’animo.
Una frase che può sembrare l’ennesimo modulo di discorso amoroso è invece la descrizione delle conseguenze del vivere contemporaneo.